Allevamenti
intensivi
Un’altra
pratica umana che si scontra con l’etica animalista è
sicuramente quella degli allevamenti intensivi (vedi galleria
fotografica ),
in cui, fra gli altri, vengono meno diritti fondamentali quali quello
della vita e quello del non essere sottoposti a torture.
Per la maggior parte degli esseri umani il maggior contatto con gli
altri esseri non umani avviene al momento dei pasti, quando si ritrova
nel piatto una bistecca o nel panino del prosciutto. L’abitudine
a questo fatto ci porta a tralasciare del tutto l’abuso di creature
viventi che sta dietro a ciò che mangiamo.
Negli ultimi cinquant’anni l’ingresso nel settore dell’allevamento,
di grandi società e l’introduzione del concetto di catena
di montaggio, trasferito dal mondo dell'industria meccanica a quello
dell'allevamento, ha avuto risultati per gli animali a dir poco disastrosi:
nei capannoni di allevamento, gli animali sono diventati macchine
che riproducono se stesse, in un ciclo infinito di prigionia, di nutrizione
innaturale, e di morte prematura.
Il processo ha avuto inizio quando le grosse imprese acquistarono
il controllo del mercato del pollame, sostituendo di fatto i piccoli
produttori. Coloro che gestiscono grandi società non hanno
alcun interesse per l’armonia fra piante, animali e natura,
ma sono volti soltanto alla ricerca del maggior profitto possibile.
Per rendere la propria attività competitiva utilizzano metodi
che riducono al massimo i costi ed aumentano la produzione. Così
gli allevamenti sono divenuti “industriali” e gli animali
sono macchine che trasformano l’economico foraggio di cui si
nutrono, in costosa carne (quella dei loro stessi corpi) che sarà
venduta e produrrà guadagno economico. La tecnologia moderna
ci ha portato ad un livello di sfruttamento senza eguali, mentre sono
venuti a mancare tutti gli elementi che un tempo favorivano l'animale
nel suo rapporto (seppur di sudditanza) con l'uomo, come per esempio
la protezione e l'allevamento in un habitat rurale consono alla sua
morfologia. Roberto Marchesini, medico veterinario, nel suo Oltre
il Muro: viaggio all'interno degli allevamenti intensivi, scrive
così: "Gli allevamenti intensivi inquinano pesantemente
il nostro territorio, intossicano coi loro prodotti il nostro fisico,
ma quello che maggiormente fuorviano è la nostra sensibilità,
abituando la nostra coscienza a tollerare e legittimare la tortura.
L'attività zootecnica, per il numero di animali che coinvolge,
per le sevizie a cui li sottopone, per la poca considerazione che
l'opinione corrente vi spende, deve ritenersi la piaga più
grave e pertanto rappresenta della nostra società l'aspetto
più aberrante" .
Un caso emblematico delle sevizie subite dagli animali, negli allevamenti
intensivi, è quello del pollo (vedi galleria
fotografica ).
Primo animale ad essere sottratto alle condizioni quasi naturali della
fattoria tradizionale, passò dalla sua condizione di animale
da cortile a prodotto industriale. Rinchiuso in un capannone senza
finestre, in cui ogni elemento dell’ambiente è organizzato
per farlo crescere il più possibile e nel minor tempo, riceve
l’acqua e il cibo automaticamente. Vede la luce a seconda delle
disposizioni degli esperti di agronomia, luci che vengono quasi del
tutto spente, con lo scopo di evitare fenomeni di aggressività,
quando con tutti gli altri polli è cresciuto e il capannone
diviene un luogo incredibilmente piccolo. Infatti in situazioni di
stress causati dal sovraffollamento e dalla prigionia, si è
visto che i polli reagiscono strappandosi le penne e attaccando i
propri simili sino ad arrivare a divorarli. Questo naturalmente porta
dei danni economici all’allevatore che quindi tenta di porvi
rimedio, ma anziché eliminare la causa di tali comportamenti
fra i polli, ovvero il sovraffollamento, preferisce attuare un rimedio
che gli consenta di non aumentare i costi di gestione dei capannoni.
La soluzione più diffusa è quella dello “sbeccamento”.
Il becco del pulcino appena nato viene inserito in una specie di piccola
ghigliottina dalle lame roventi che ne taglia l’estremità.
Questa tecnica causa spesso agli animali ustioni alle narici, gravi
mutilazioni che provocano un dolore acuto e cronico. Gli allevatori
di un tempo, che tenevano i propri polli in uno spazio abbondante,
di relativa libertà, non avevano bisogno di tagliare loro il
becco, in quanto erano del tutto assenti, fra di loro, fenomeni di
cannibalismo . I polli di allevamento intensivo non vedono mai la
luce del giorno, non respirano mai aria che non sia impregnata dell’odore
dei loro escrementi, sono sempre nervosi ed aggressivi, vivono in
spazi angusti schiacciati l’uno contro l’altro e sono
sottoposti a numerose, nuove malattie, sconosciute nella loro vita
naturale. Non conducono una vita migliore neanche le galline ovaiole,
le cui sofferenze iniziano sin dalla nascita, quando i pulcini vengono
separati tra maschi e femmine. I pulcini maschi, inutili nella produzione
di uova, sono così scartati e, il più delle volte, macinati,
ancora vivi, per produrre mangime per le proprie sorelle e madri.
La vita delle femmine è più lunga, ma questo difficilmente
può essere definito un vantaggio. Esse vengono tenute in gabbie,
dove non hanno neanche lo spazio di allargare le ali, che consentono
di alloggiare, sfamare, riscaldare ed alimentare in un solo edificio
un enorme numero di galline. Nella maggior parte degli stabilimenti
le gabbie sono tenute in fila con una certa pendenza del fondo, che
rende difficile ai volatili star comodi, ma che permette di far rotolare
le uova, prodotte senza tregua, in modo da essere facilmente raccolte.
E quello del pollo e della gallina è solo uno dei tanti casi
di allevamento che rasenta la tortura, infatti suini, bovini e ovini
vivono in condizioni di prigionia e sofferenza molto simili, a volte,
se è possibile, persino peggiori.
Da sottolineare è la quasi totale segretezza che circonda le
tecniche moderne di zootecnica Gli allevamenti sono tenuti lontano
dallo sguardo del grande pubblico allo stesso modo dei laboratori
di vivisezione.
L'inibizione degli istinti naturali è la prima forma di sofferenza
generata dalla stabulazione degli animali. A monte di essa c'è
però il maltrattamento genetico che produce esseri menomati
fin dalla nascita: vitelli anemici, scrofe che non riescono a stare
erette sulle proprie zampe tanto sono enormi, mucche dalle mammelle
enormi, animali che ingrossano a tal punto da strapparsi i tendini.
Inoltre l’adozione dell’allevamento in luoghi chiusi ha
portato una nuova classe di malattie, note come “malattie da
produzione”, causate appunto dai metodi di allevamento impegnati.
L'animale viene reificato ed in quanto tale non ha diritti, non ha
un habitat ed un'etologia da rivendicare, non è una specie
in via d'estinzione, non ha più nemmeno una fisiologia che
gli appartiene, è un mero oggetto che deve la sua vita all'artefice
uomo.
Questi animali "standardizzati ed omologati" soffrono nella
loro breve vita in allevamento di " patologie metaboliche, alte
frequenze di teratogenesi, turbe nervose, difficoltà organiche
e via dicendo" e tutto ciò procura loro un "reiterato
stato di sofferenza".
Spesso si sostiene che le ovaiole nate ed allevate in batteria non
soffrano la "mancanza d'aia" in quanto l'aia non l'hanno
mai conosciuta. Ma chi di noi si sognerebbe di sostenere che un uomo
che non ha mai conosciuto la libertà, non soffra a vivere rinchiuso
in una gabbia dove non può nemmeno voltarsi?
A tal proposito Marchesini continua: "Se le galline si beccano
tra loro fino a morire, se nei conigli sono frequenti i fenomeni di
cannibalismo della madre verso i piccoli, se i suini si divorano la
coda, se molti animali arrivano nelle loro nevrosi ad autolesionarsi
è conseguente che, per quanto ignari della condizione di benessere,
tuttavia soffrano frustrazioni, alterazioni del comportamento, patologie
organiche".
Gli zootecnici accusano di antropomorfismo chi chiede per gli animali
uno spazio vivibile, chiedendo anche che si tengano in considerazione
i loro bisogni etologici e affettivi o anche solo che non vengano
mutilati. Tutto negli allevamenti viene forzato, le mungiture, le
gravidanze, l'ingrasso, i ritmi biologici degli animali. Le epidemie
a carico delle popolazioni zootecniche quasi non si contano, e molte
di esse non sono affatto malattie specie-specifiche, come la sindrome
della "mucca pazza" ci sta oggi drammaticamente insegnando.
In conseguenza della continua violazione dei loro bisogni sia biologici
che psicologici, gli animali soffrono anche mentalmente oltre che
fisicamente. La maggior parte di questi animali mostrano segni di
grave stress che a lungo termine causa delle forti turbe comportamentali.
Per gli esponenti del movimento animalista mondiale, oltre che per
grandi umanisti quali M.K.Gandhi e George Bernard Shaw, lo sterminio
di miliardi di animali ogni anno è una delle più grandi
aberrazioni della civiltà occidentale del XX secolo.
Questo "genocidio" avviene con la complicità delle
grandi masse: gli addetti del settore zootecnico non sono poi così
tanti, ma possono contare sulla domanda di carne che permette loro
di continuare ad operare.
Si sostiene che per nutrirci sia lecito uccidere. Ma non essendo necessario
nutrirsi di carne per avere una salute ottimale non appare neanche
lecito uccidere (in quanto perfettamente evitabile). In ogni caso
dovremmo chiederci, se per nutrirci sia lecito non soltanto l'uccidere,
ma anche il torturare degli animali condannati ad una morte atroce.
L'animale-oggetto non starà mai bene, non sarà mai un
animale in stato di comfort. La colpa di tutto questo però
non è solo degli allevatori, che sono spinti dal profitto come
qualunque altro imprenditore. L'opinione pubblica occidentale è
infatti orientata a credere che sia necessario e giusto mangiare una
certa quantità di carne e che anzi un aumento del consumo della
carne sia un indice di benessere e di avanzata civiltà. E per
poter mantenere basso il prezzo dei prodotti della macellazione, sono
necessari proprio gli allevamenti intensivi. Non vi sono alternative
a questo tipo di allevamento se vogliamo continuare a nutrirci in
massa di carne. In ogni caso anche l’allevamento non intensivo
comporta sofferenze per gli animali, quali la castrazione, l’allontanamento
precoce della madre dai piccoli, lo smembramento dei gruppi sociali,
la marchiatura, il trasporto e per finire la macellazione stessa a
cui, inevitabilmente, qualunque animale destinato a divenir cibo,
è condotto. È difficile immaginare che gli animali possano
essere allevati come cibo eliminando tali sofferenze. Ed in ogni caso
anche se ciò fosse possibile, come sostiene Singer ciò
“è irrilevante rispetto al problema immediato che l’etica
della nostra dieta quotidiana mostra. Quali che siano le possibilità
teoriche di allevare gli animali senza sofferenza, la realtà
è che la carne venduta nelle macellerie, nei supermercati proviene
da animali che hanno sofferto mentre venivano allevati”.
Inoltre
gli allevamenti intensivi presentano degli alti costi anche dal punto
di vista sociale ed ambientale. In una società industriale
che richiede la disponibilità di grandi capitali, i piccoli
imprenditori non sono in grado di competere alla pari. L’efficienza
e la produttività eclissano altri valori tradizionalmente mantenuti
nelle piccole comunità rurali, quali l’indipendenza,
l’autosufficienza e la cura della terra e degli animali. Dal
punto di vista ambientale gli allevamenti intensivi pongono il problema
dello smaltimento dei rifiuti prodotti, l’alto consumo di energia
e di acqua. I residui chimici nei prodotti animali possono costituire
problemi per la salute umana e un diffuso impiego di antibiotici necessariamente
porta alla creazione di microbi patogeni resistenti .