Politica ed economia ambientale

Uno dei punti centrali della contestazione ecologica si rivolge contro l'"economia" . Le leggi economiche correnti tendono quasi sempre ad aumentare al massimo la quantità di denaro, come profitto privato o come ricchezza nazionale, espressa, quest'ultima, nell'indicatore che porta il nome di "prodotto interno lordo".
L'aumento sia del profitto privato, sia della ricchezza nazionale viene oggigiorno realizzata quasi esclusivamente attraverso un aumento della produzione e del consumo delle merci e, inevitabilmente, per il principio di conservazione della materia e dell'energia, come ci insegna l’ecologia, tale aumento comporta un impoverimento delle risorse naturali e l'immissione di scorie nell'ambiente, cioè un peggioramento della qualità delle risorse naturali restanti.
Appare perciò sempre più evidente che la crisi ambientale può essere superata soltanto ricorrendo contemporaneamente a strumenti tecnici e a strumenti di politica economica .
Ogni persona presente sulla Terra ha bisogno, anche se in grado maggiore o minore, di beni materiali e questi possono essere tratti soltanto dal mondo circostante, cioè dalla natura. La quale è grande, ma non illimitata. Sappiamo che una popolazione vegetale o animale, in uno spazio e in un ecosistema di dimensioni limitate, può aumentare fino ad un certo punto, al di là del quale le risorse essenziali - cibo, acqua, spazio per muoversi ed estendersi, capacità di assimilazione delle scorie dei processi vitali - diventano scarse, se non addirittura nulle; arrivati a tale punto gli individui che compongono la popolazione vengono in concorrenza e in conflitto fra loro causando o la migrazione - se esiste un altro habitat in cui andare - oppure l’eliminazione di una parte (solitamente dei più deboli).
La stessa regola vale per le popolazioni umane. Ma vi è una particolare differenza: con l'evoluzione tecnica ed economica aumenta la quantità - e varia la qualità – del materiale consumato da ciascun individuo con un conseguente aumento della domanda di risorse naturali.
A livello globale l'aumento della popolazione mondiale e della quantità di oggetti prodotti e consumati impoverisce nello stesso tempo le riserve di risorse naturali e fa diminuire la capacità di riassorbimento dell'ambiente dei rifiuti delle attività umane. Si osserva così la diminuzione delle riserve di risorse forestali e di idrocarburi, l'aumento della concentrazione di gas nocivi nell'atmosfera urbana, la crescente difficoltà, in molte zone della Terra, di reperire acqua di qualità accettabile per l'alimentazione umana, eccetera.
Ma anche l'erosione del suolo, con conseguenti frane e alluvioni, è la conseguenza dello sfruttamento per fini agricoli o di pascolo (o ancora peggio come succede nelle zone turistiche montane, per costruire piste da sci ed altri impianti sportivi), al di là della capacità di ricostruzione della vegetazione protettiva, quella che regola il flusso delle acque sulla superficie.
Per risolvere tale situazione alcuni movimenti ecologisti (ma anche scienziati, filosofi, politici), partendo dalle "leggi" dell'ecologia, mettono in evidenza che esiste un limite nella disponibilità di risorse naturali del pianeta e che la natura è in grado solo in parte di riassimilare le scorie delle attività umane e suggeriscono che occorre rallentare e mettere un limite allo "sfruttamento" della natura attuando una politica di “sviluppo sostenibile”.
Gli odierni sostenitori di un limite alla crescita della popolazione mondiale, delle merci, delle scorie, hanno illustri predecessori, da Malthus a Jevons (che nel 1865 aveva predetto l'esaurimento del carbone delle miniere britanniche), a Stuart Mill e a Pigou e alle loro proposte di società stazionaria, alle prime pubblicazioni del Club di Roma (1971), fino agli economisti un po’ eterodossi come Georgescu-Roegen e ai seguaci della sua bio-economia.
Vi sono poi coloro che sostengono che non è vero che esiste un limite allo sfruttamento delle risorse naturali e ci ricordano spesso come le previsioni di scarsità delle risorse naturali sono state smentite dalla scoperta di altre fonti delle stesse risorse, o da altre soluzioni tecniche.
La tecnica, secondo questa visione molto, probabilmente troppo, ottimista, ci salverà, a condizione che ci sia crescita economica, che aumenti la domanda e la produzione di merci, che circoli la ricchezza, che si diffonda l'ideale del benessere materiale.
Ma la tecnica da sola può salvarci davvero? Alcuni problemi di scarsità delle materie prime possono effettivamente essere affrontati con soluzioni tecniche, ed anzi è assolutamente necessario che questo avvenga, anche nell’ottica di uno sviluppo sostenibile. Il moto dell'acqua dei grandi fiumi può fornire energia idroelettrica in quantità molto superiore all'attuale. È possibile aumentare la quantità di acqua dolce dissalando l'acqua dei mari e degli oceani o ricavare calore e elettricità dal Sole .
È possibile razionalizzare la qualità delle merci in modo da ridurre gli sprechi, come è possibile utilizzare più volte, attraverso operazioni di riciclaggio, molti materiali usati. È possibile perfezionare i processi di trattamento e decomposizione delle scorie delle molte attività umane in modo da renderle innocue o eventualmente da trasformarle in altri materiali utili.
Spesso, però le soluzioni "tecniche" non fanno altro che spostare l'impoverimento delle risorse naturali da un territorio ad un altro, l'inquinamento dai fiumi al mare, dal suolo all'atmosfera. Talvolta alcune soluzioni tecniche che risolvono i problemi ambientali nel Nord del mondo aggravano quelli dei paesi del Sud del mondo o lasciano problemi irrisolti alle generazioni future. Un caso tipico è offerto dai depositi di scorie tossiche o radioattive che la nostra generazione seppellisce nel suolo e che faranno sentire i loro effetti nocivi sugli abitanti del pianeta fra venti anni o fra un secolo.
Il dibattito sull'edificazione di una "società sostenibile", cioè di qualità accettabile anche per le generazioni future, è stato al centro della conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992 proprio allo scopo di analizzare gli aspetti economici e politici dei rapporti fra la natura e l'ambiente, da una parte, e lo sviluppo e la crescita dall'altra.
La Conferenza di Rio è stata una riunione non degli scienziati, ma dei governanti della Terra e ha mostrato appieno le divergenze che esistono, a proposito dello sfruttamento della natura e delle sue risorse, fra gruppi di paesi.
Da una parte esistono i paesi industrializzati ricchi, in molti casi autosufficienti, di materie prime (Stati Uniti, Russia, Canada, Australia), dall'altra i paesi industrializzati con materie prime scarse, dipendenti dalle importazioni di tali materie (Europa, Giappone). Vi sono i paesi in via di sviluppo ricchi di alcune delle materie prime strategiche (paesi arabi, Messico, Venezuela per il petrolio, Nord Africa per i fosfati, Egitto, India per il cotone, Argentina per la carne, eccetera) e alcuni ricchi di mano d'opera a bassissimo costo. Vi è infine un "quarto mondo" di paesi sottosviluppati poveri di materie prime e di ogni altra cosa.
Nonostante la gravità della situazione ambientale i governanti della Terra non sono riusciti, a Rio de Janeiro, e neanche in incontri successivi, ad andare al di là di una serie generica di dichiarazioni sulla necessità di difendere la Terra dalle future modificazioni del clima, di difendere le foreste tropicali, di proteggere la diversità fra specie di vegetali ed animali.
Comunque anche l'adozione di molte delle soluzioni tecniche di alcuni aspetti della crisi ambientale presuppone più o meno profondi mutamenti di carattere etico, politico ed economico che non sempre la popolazione umana è disposta ad accettare. E gli strumenti tecnico-scientifici saranno ben poco efficaci senza il contributo che l'economia politica offre per la correzione degli effetti negativi delle attività umane sull'ambiente.
Tuttavia anche l’idea di uno sviluppo sostenibile è molto difficile da attuare. Ad esempio nei paesi in via di sviluppo, che sono spesso caratterizzati da una elevata crescita demografica, la crescita economica potrebbe risultare compatibile con la sostenibilità soltanto se ci fosse un grosso impegno della politica ambientale diretta a ridurre l’intensità del degrado ambientale. Ma proprio in questi paesi è particolarmente difficile che l’orientamento dei policy-makers e dei cittadini dia all’ambiente la priorità che consentirebbe un’evoluzione sufficientemente rapida delle tecnologie e della struttura della domanda.
C’è chi confida nei mercati e nella loro globalizzazione per ottenere questi risultati. Tuttavia l’internazionalizzazione dei mercati, in assenza di opportuni interventi correttivi o di regolazione, ha avuto effetti ambigui sulla sostenibilità dello sviluppo dei paesi non ancora pienamente industrializzati. Dal punto di vista tecnologico ha consentito il trasferimento di tecnologie pulite messe a punto nei paesi industrializzati, ma ha favorito anche il trasferimento di tecnologie inquinanti obsolete, il decentramento in loco delle fasi produttive più inquinanti e l’esportazione dei rifiuti tossici. Dal punto di vista culturale ha favorito la diffusione di una maggiore sensibilità ambientale e ha ridotto la crescita demografica, ma al contempo ha diffuso modelli di vita e di domanda più orientati verso il consumismo e lo spreco delle risorse. Dobbiamo quindi prendere atto che difficilmente la sostenibilità dello sviluppo può essere ottenuta nei paesi in via di sviluppo senza una sistematica assistenza dei paesi più sviluppati rivolta al trasferimento di tecnologie meno inquinanti e a standard di consumo più eco-compatibili.
Tra l’altro gli attuali orientamenti di politica neoliberista, presenti negli ultimi anni in buona parte dei cosiddetti paesi sviluppati, hanno ridotto il grado di sostenibilità sociale dello sviluppo in molti paesi e cominciano a mettere a repentaglio anche i passi avanti compiuti per quanto riguarda la sostenibilità ambientale. Un esempio significativo è dato dai rallentamenti e dagli ostacoli che l’accordo firmato a Kyoto nel 1997 sulla riduzione delle emissioni di gas serra ha dovuto affrontare negli anni successivi e che ne hanno impedito il passaggio alla fase operativa.

   

 

   

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